Welcome to the Online Diary History Project!

greenspun.com : LUSENET : Online Diary History Project : One Thread

Well, it's finally here. Let us know that you stopped by and what you think.

-- Cara (cara@golden.net), July 17, 2000

Answers

I think it looks great! I'm really glad we decided that you should be in charge of the site design and not me!

I also really enjoyed reading everyone's submissions.

-- Jennifer Wade (jenwade@earthlink.net), July 18, 2000.


It's marvelous to see the fruits of your labor! The site looks wonderful, and it's good to take strolls down OLJ's Memory Lane.

Thanks so much,

--buck

-- Bryon Buck (buck@meyhem.org), July 19, 2000.


Very cool. Interesting to read the different perspectives of the pioneers. I only wish more people had contributed. Hey Nigel! Gus! Andr00! Hint hint.

- Javina

-- Javina (javina@javina.com), July 19, 2000.


I agree, Javina, that there are some conspicuous absences in the personal recollections page! I hope that over time more diarists will get motivated to contribute.

-- Jennifer Wade (jenwade@earthlink.net), July 19, 2000.

I just stopped by to see how things are going, and they look great. :) Congratulations to all of you, this is a wonderful project.

Cheers.

-- Georgina (eponymous@georgina.org), July 26, 2000.



This site is a joke, and I'm not laughing. Although, I suppose investigating the history of this now meanignless medium might have some merit.

-- Jim Beggs (jrb266@psu.edu), July 26, 2000.

Again, I'm a year and a half behind all of this.

Regardless, anybody want to explain to me who this guy is and why this is a "now meaningless" medium? WTF?

-- Emily (greenspam@emilyweise.com), November 12, 2001.


Jim is a long-time diarist (since 1997) who currently keeps a site at livejournal.com.

I'm not sure what he meant by "now meaningless medium".

My own conjecture is that online journals have proliferated to the point where the relationship between writer and reader, and especially between writers, has changed substantially. Now that there are thousands of diarists, it's no big deal, and the novelty and importance of the medium has diminished.

Do you agree?

-- Javina (javina@hotmail.com), November 13, 2001.


TRACCE DI DIARIO ROMANZATO-"Spirito arguto può diventare falsa sostanza. La concisione, seppur brillante e utile alla memoria, non può evidentemente rendere giustizia a tutti i fatti di una situazione complessa". Aldous Huxley, Ritorno al Nuovo Mondo PREMESSA Questa storia di fabbrica ha come protagonista il giovane Davide e si dipana in due aree ben distinte: la verde Valsesia, terra ricca di eventi e di tradizioni, e la Val d'I., un'immaginaria vallata limitrofa alla prima; con la variante che la Valsesia è qui narrata come rifugio arcadico e fonte di conoscenza, mentre la vicina Val d'I. è la meccanicistica valle delle fabbriche del consumismo e dell'alienazione. Una Sylicon Valley miniaturizzata dove Davide, sotto la guida del contadino e dell'operaio raccoglie nozioni ed esperienze, nutrendosi nel contempo dello spirito, della storia e delle leggende. I CAPITOLO "Gli idoli della tribù sono fondati sulla stessa natura umana che spinge gli uomini a formare la società, o tribù". Francis Bacon, Novum 0rganon - Davide era molto giovane quando iniziò a far domande nelle fabbriche della Val d'I., più vicine al capoluogo, senza badare al tipo di lavorazione e al genere di prodotto. Gl'interessava, anzitutto, apprendere un mestiere con un futuro, un'occupazione che gli consentisse altresì di mantenersi, senza far pesare sul bilancio famigliare le proprie esigenze. In genere, erano il portinaio o la centralinista a porgere il modulo della domanda; ma nelle fabbrichette, nelle filande con pochi operai o nelle fonderie basta lasciar nome, cognome e l'indirizzo anche su di un semplice foglio di carta. I moduli, quelli veri, stampati e col marchio della ditta, chiedevano della età, delle condizioni di vita, del titolo di studio conseguito e, in calce, se si conosceva eventualmente qualcuno che già prestava servizio in quell'azienda. Le domande venivano inoltrate all'Ufficio Personale, dove un incaricato le prendeva in esame e decideva, in base alle richieste dei reparti di produzione, se c'era oppure no la necessità di assumere. In ogni caso, venivano di solito archiviate. Per quelle su carta comune il percorso era molto più breve: quasi sempre finivano in fondo ad un cassetto. Le piccole aziende artigianali richiedevano molto raramente nuovo personale; e quando lo richiedevano facevano riferimento al conoscente, all'amico o all'apprendista, se non era richiesta, in modo specifico, la presenza di una persona specializzata. Davide ebbe anche modo di parlare con i titolari delle fabbriche che raramente tenevano contatti diretti con i disoccupati. Quando ciò avveniva si sentiva alquanto imbarazzato perché era un timido, ed una cosa era riempire una cartella con quesiti, un'altra rispondere a domande come: "Quali sono le sue aspirazioni?" Egli abbassava la testa guardandosi le punte delle scarpe, si passava la mano nel ciuffo, ed esordiva: "Alle scuole elementari sognavo di fare un giorno il cacciatore di elefanti. Alla quinta classe ho mollato tutto. E non so far niente; farei qualunque lavoro, ma prima devo imparare". Davide però era anche un giovane molto curioso e nei suoi itinerari nella valle delle fabbriche non si stancò mai di chiedersi: perché? Per quanto riguardava il lavoro di fabbrica, egli aveva una preferenza nel campo della meccanica. Aveva scorto un giorno dei torni e delle frese in un'officina artigianale e, subito, con quell'entusiasmo giovanile che accompagnava ogni sua azione, s'era interessato sulle funzioni di questo e di quel dispositivo, di questo o di quell'ingranaggio della macchina. Macchine, tuttavia complesse e pericolose: soprattutto per mani inesperte. L'autunno, che iniziava a temperare gli afosi meriggi estivi, invogliava ad inoltrarsi nei verdi boschi della Val d'I., vallata alpina circondata da imponenti montagne perennemente innevate, da fertili pascoli e da tersi ruscelli che confluivano in tanti nervosi torrenti e, briosamente, alimentavano il grande fiume pietroso di smeraldo. Davide lasciò, quel tardo pomeriggio, la propria casa e s'inoltrò nel vicino bosco alla ricerca di castagne e, chissà, fors'anche di qualche prelibato fungo porcino o d'un grappolo d'uva asprina. Ruppe un ramo asciutto, ben secco di castagno e scrutando ai bordi del viottolo, con una cavagnetta di vimini al braccio, notò soltanto fra i teneri fili d'erba la mutevole sagoma di un ramarro, che guizzò via in un lampo nascondendosi sotto i sassi, protetto da rovi spinosi, nella selva di foglie quasi ingiallite. Il sentiero era molto dissestato ed egli col suo esile corpo brancolava, talvolta, facendo fatica a sostenersi, pur appoggiandosi al legno. La pioggia dei giorni precedenti, infatti, aveva gonfiato il ruscello che aveva invaso il sentiero; ed era facilissimo scivolare sul pietrisco rossastro che rivestiva, magico tappeto, il viottolo che conduceva alla sorgente chiamata "il fontanino", nei pressi di Riò, una ridente frazione della bassa valle nel territorio del comune di Duecastelli, un paesello pittoresco e unico situato tra campagna e collina. E al "fontanino" Davide incontrò il vecchio saggio Zaccaria, un contadino del posto, che stava attendendo pazientemente che il bottiglione, sotto lo zampillo scarso ma continuo, si riempisse fino a traboccare di quella fresca e, si diceva, salutare acqua che sgorgava dalla viva roccia coperta da uno spesso strato di muschio. Il caldo e il freddo nel mutar delle stagioni avevano procurato a quelle rocce profonde screpolature, ma nonostante l'erosione erano compatte e salde. Zaccaria se ne stava seduto come un patriarca sopra un sasso tondo. D'intorno, oltre il ruscello un breve pianoro coperto di erba e di mirtilli, di arnica montana e anche di talune erbe medicinali abbastanza rare come la morella. Nei pressi della sorgente, moltissime betulle e alti faggi abbarbicati alle rocce; poi arbusti arborescenti. Per avvicinarsi alla fonte e all'uomo, Davide dovette fare un saltello; prima, però, si soffermò nei pressi del trasparente rigagnolo, cercando di aprire col bastone che teneva in mano un passaggio all'acqua che, fermata da rami e da foglie morte, creava minuscole dighe, microscopici laghetti. "Hai paura che l'acqua smetta di scorrere? Vedo che ti preoccupi a cavar foglie" domandò il vecchio. "Non ho paura" rispose Davide. "Stavo solo cercando di...mah, forse è una mia abitudine, un vizio strano. A ben pensarci, tutte le volte che trovo un ruscelletto intasato cerco di liberarlo, d'aiutarlo a fluire." "L'acqua, la rinascita, scorre sempre verso il basso, giovanotto" ammonì il saggio Zaccaria." Non c'é alcun bisogno che tu ti metta a sgarzigare qui davanti. Se vuoi bere," aggiunse pacato "sposta pure la bottiglia. Poi, però, rimettila a posto, che sto bene, qui seduto, e non ho ancora voglia di alzarmi. Ci vuole quasi mezz'ora affinché si riempia e io" aggiunse ancora, cavando di tasca l'orologio a cipolla cesellato "ne ho ancora per altri dieci minuti". "Non ho molta sete" rispose il giovane. "Però voglio ugualmente bere. Chissà che quest'acqua chiara non mi porti fortuna." "Questa fonte purifica" fece il vecchio tirando un profondo sospiro. "Io vengo qui tutti i giorni da quand'ero bambino. La potabile è si una comodità ma è inquinata dal cloro e da altre sostanze impure. Questa è limpida come un diamante." Zaccaria aveva la saggezza dipinta in volto da una miriade di rughe profonde che sembravano tante inesorabili cicatrici che s'intersecavano. Nella frazione lo si conosceva per i suoi conigli, galline e uova che settimanalmente andava a vendere al mercato del paese. Possedeva anche un pezzo di campagna che non aveva lasciato, come altri, per entrare in fabbrica. S'era adattato abbastanza bene a vivere dignitosamente dei magri frutti di una terra avara ma non alienante. Alienante come il rigido schema imposto dalle fabbriche, ad esempio. D'altra parte le alternative per la pagnotta eran quelle per Davide, figlio di un operaio della fonderia "Scaramuzzi" e della Iole, brava e semplice massaia, sempre tra il bucato da fare e la pasta da cuocere o i pettegolezzi con le vicine. "A scuola non vai più?" chiese il contadino. "La scuola l'ho lasciata da un pezzo" rispose il giovane asciugandosi la bocca col dorso della mano. "Adesso" aggiunse "aspetto un lavoro. Ho già fatto numerose domande nelle fabbriche della val d'I. Vede" disse ancora "a casa nostra serve più una busta paga che un diploma." "E come mai" continuò il vecchio "un giovane come te lasciar gli studi?" "E' una storia lunga, Zaccaria" replicò Davide. "Poi non avevo nessuna intenzione di progredire, di impegnarmi. Gl'insegnanti mi definivano vivace ma svogliato. Poco portato ad applicarmi fruttuosamente sui libri." "E' un peccato che ti sia allontanato dallo studio, anche se credo che al giorno d'oggi sia molto meglio imparare un mestiere che avere in mano un foglio di carta, che in pratica serve poco. Ricorda, comunque, che il lavoro umile non diminuisce il valore di una persona." Così dicendo Zaccaria s'alzò dal sasso. Lo fece faticosamente, spingendo il proprio corpo verso l'alto, con le due forti braccia e flettendo in avanti il busto. Quando fu ritto, tirò un sospiro di sollievo e guardò Davide, fermo al ramo di nocciolo, con un leggero sorriso: "Come sei giovane e candido" gli disse. La bottiglia traboccava e l'uomo la tolse dalla sorgente, mettendo subito un tappo di sughero che aveva scovato in una tasca dei calzoni, consunti e macerati dagli umori delle gabbie dei conigli e del pollaio, che di quando in quando puliva con una cazzuola da muratore e con il badile. Spargeva poi il letame, lasciato fermentare, nel suo pezzo di terra dove raccoglieva nella bella stagione insalata, pomodori, patate e cavoli. Un anno aveva piantato quasi esclusivamente rapanelli, di quelli lunghi e nodosi; e in autunno ne aveva raccolti un carretto che regalò al Cerini perché li desse in pasto ai suoi cavalli. Ma le bestie, abituate a fieno e biada, le rifiutavano. Così quel carico di gustosi ortaggi finì in buona parte in una discarica. Tuttavia il Cerini non poté negare l'aratura gratuita del campo di Zaccaria che tanto s'era prodigato, sia pur vanamente, per i suoi animali. La sorgente sgorgava dal basso, da un anfratto nella viva roccia. L'aveva scoperta un prete che cent'anni prima vi aveva inciso sulla parete sovrastante le proprie iniziali: D.M. e una data, 1866. Il D.M. stava per don Mino. Da allora molti abitanti di Riò si recavano ogni giorno alla fontanella per far scorta di acqua che tenevano poi al fresco della cantina per servirla, in alternativa al bicchiere di vino, ai conoscenti; come liquido miracoloso contro la gotta, la sciatica e il fuoco di S. Antonio. Soprattutto la Ercolina, il Gaspare, la Speranza e la 0norina facevano volentieri scorta. Li si vedeva la domenica mattina, prima della messa, con i recipienti vuoti, recarsi per il sentiero alla ricerca di quel liquido pregiato. Nel bere per la seconda volta, Davide aveva spostato una pietra grigia risvegliando un insetto coleottero nero con sei zampe. Il batter d'ali di un falco ruppe il silenzio. "E' un Claps Morfifera" sentenziò il contadino. "Secondo la tradizione, è l'insetto che preannuncia la morte". A quel dire il giovane s'impensierì. S'alzò repentinamente asciugandosi, questa volta col fazzoletto. "Che significato ha questo per me?" chiese turbato e smarrito al saggio Zaccaria, che lo guardò ironico e al tempo stesso solenne dicendogli: "Nulla di cui ti debba preoccupare: è un segno della natura. Vuol dire, credo, che noi due ci incontreremo spesso in questo luogo. E, se tu vorrai, potrai raccontarmi delle tue esperienze. E io ti aiuterò, nei limiti dell'umano ad avanzare nel tuo lungo cammino che t'accingi a percorrere." "Così va meglio" rispose Davide risollevato, avvicinandosi al contadino. E tornarono indietro, verso le case, affiancati e parlando del più e del meno. Davide abitava al pianterreno di una vecchia casa rurale concatenata ad altre che chiudevano nel mezzo un ampio cortile. Il pozzo in disuso ed il mortaio in pietra per la frantumazione del mais e delle castagne ne erano parte integrante. Anticamente, l'accesso al cortile, nel quale abitavano molte famiglie, era bloccato da un robusto portone di legno che a sera veniva sprangato. Il suo scopo era di evitare che i famelici lupi, che infestavano la zona sino alla prima metà dell'Ottocento, entrassero nelle stalle e nelle abitazioni, con le conseguenze facilmente immaginabili. Il cortile, con i pollai e le conigliere, restava quindi protetto da ogni possibile cattiva sorpresa. All'imbrunire, le donne sedevano su una panca d'abete: sferruzzavano e discutevano animatamente del raccolto dei campi o del prossimo parto di una vacca. Gli uomini delle fabbriche vicine si dedicavano anch'essi, in parte, all'agricoltura, ma sottoforma di svago e di passatempo. Chi aveva una piccola vigna sulle colline della Gallina, chi il frutteto nell'ampio pianoro che sovrasta l'antico oratorio di San Grato. Con Franco Scalchi, figlio di un commerciante di stoffe che piazzava la bancarella alternativamente il giovedì a Duecastelli ed al sabato a Torremerlata, imbonendo la gente con i suoi scampoli di lana e seta. Davide, che col suo carattere sapeva rendere stuzzicanti i monotoni giorni del paese, organizzava escursioni attraverso le polverose soffitte delle vecchie case alla ricerca di chissà quali tesori. Egli aveva persino tracciato una sorta di mappa che teneva appesa alla parete nella propria stanza. Dalla sua soffitta era infatti possibile raggiungere quasi tutti i solai. Di solito, sceglievano per gl'itinerari le prime ore del pomeriggio quelle ore che, generalmente, la gente utilizza per il consueto riposo. Scalchi era un tipo biondiccio, corpulento, con due occhi celesti che raggiungevano tutto: dai nidi di merlo nel bosco dei faggi a quelli del cardellino, disseminati sui platani che costeggiavano la via del cimitero. Raccoglieva uccelli di tutte le specie, li svezzava e cresceva con la pompetta del collirio a mo' di biberon. Nella sua abitazione trovavano posto almeno una decina di gabbie, collocate al riparo dalle intemperie in un angusto locale adibito a lavatoio. C'erano pettirossi cinciallegre ed anche comuni passerotti, capitati malauguratamente nelle sue infallibili trappole, sopratutto quelle invernali, dissimulate sotto il manto di neve e per questo più insospettabili e micidiali. Meo, il gatto siamese del ragazzo, stava sempre all'erta. Un giorno, proprio mentre stava per essere imboccato, un pettirosso scappò e una tenera ala piumata rimase imprigionata tra i famelici denti. Il pennuto riuscì infine a liberarsi ma era ormai condannato alla morte, nonostante le cure e le medicazioni prodigategli. Scalchi diede una forte pedata al gatto, e questi lanciò un penosissimo miagolio sgusciando dalla stretta fessura della porta che Elsa cuginetta quindicenne del ragazzo, stava aprendo per curiosare, come al solito, su quanto avveniva. Con il pettirosso moribondo chiuso fra le dita di una mano il giovane sbottò: "Ci mancavi soltanto tu. Dai, entra e chiudi l'uscio". Elsa, evanescente e ossuta, con un abitino di tela rosa e due lunghe trecce che la facevano sembrare più adolescente di quel che era, s'infilò nella camera reggendo una mezza pagnotta senza companatico. Davide si trovava vicinissimo alla gabbia del merlo che ignaro di quanto accadeva, continuava a fischiettare allegramente. "Tuo padre vuole che lo raggiungi per aiutarlo a infaldare gli scampoli. Domani c'é il mercato", disse Elsa affondando i denti nella pagnotta. Poi, senza aspettare la risposta, si mise a sminuzzare un boccone, distribuendo equamente le briciole agli ospiti delle gabbie. Scalchi non si degnò nemmeno di rispondere. "0rmai questo è spacciato" disse rivolto a Davide, evidentemente commosso. Depose il pennuto agonizzante sopra il tavolo e aggiunse: "Presto, andiamo fuori dì qui, altrimenti apro le gabbie e li libero tutti". "Non sarebbe una cattiva idea" replicò Elsa rischiarandosi in volto. "Poveretti. Sempre rinchiusi tra le sbarre come prigionieri di guerra." "Tu non mettere il becco nelle mie faccende, e gira" gli rispose indicando la strada della porta. Elsa si chiuse nelle spalle e uscì per prima. Anche i due ragazzi uscirono, e Franco serrò a chiave, nascondendola in una fessura posta in alto nel muro di sassi e calce. "Che si fa?" chiese Davide con la faccia più smunta del solito. "Noi ce ne andiamo dal ciclista di Duetorri a ritirare la bicicletta che ho bucato due giorni fa", disse Scalchi rivolgendosi alla cugina che, ferma sotto il porticato, sghignazzò. "E' la solita storia," disse questa, "hai sempre la scusa pronta. Scommetto che andate in giro per le soffitte a cercare ferri vecchi." "Se ci andiamo" ribatté l'altro "sono cavoli miei, anzi nostri. E oggi, ti piaccia o no, dobbiamo proprio andare dal ciclista." La giovane finì la pagnotta in un boccone e sfregò le mani per togliere le briciole; si passò l'abitino . Con aria indispettita e nel contempo rassegnata esordì: "Va bene, non parlo più. Anche per questa volta dovrò avvolgere le pezze con tuo padre." "Fai un po' tu" risposte spazientito Scalchi. "Mi raccomando di non entrare nella stanza degli uccelli, se vuoi che t'invitiamo alla solenne sepoltura del pettirosso Polo." Elsa se ne andò via correndo. Davide s'avvicinò all'amico e gli chiese con garbo: "Non sapevo che i tuoi uccelli avessero un nome di battesimo." "Ce l'hanno, ce l'hanno" rispose secco l'altro, che stava con le mani in tasca e la faccia rivolta in alto. "Andiamo a casa mia?" chiese Davide. "Andiamo." I due lasciarono il porticato d'edera incamminandosi, rapidamente, verso una sorta di cunicolo che univa quel nucleo di case rurali risalenti al Seicento e restaurate, in parte, dai proprietari. C'era chi aveva utilizzato il fienile per costruirvi la camera da letto, e chi la stalla adibita a cucina o a tinello. Anche i servizi igienici stavano generalmente all'interno delle abitazioni; poche le case col cesso sul ballatoio. Giunti a casa di Davide, Scalchi tolse la maglia fatta a mano e si sedette pesantemente sopra un divano rivestito di stoffa. L'abitazione era composta da tre stanze: camera da letto, l'ampia cucina, la sua stanzetta. I locali presentavano la volta a vela, tondeggiante, e la cucina gli anelli per appendervi i salami di maiale ad asciugare. L'arredamento, molto semplice, composto da un tavolo verniciato di bianco come le sedie in cucina, dal divano, da un armadio a muro con una tenda. In camera il grande letto col quadro della Madonna col Bambino sulla parete frontale, due comodini con lampade, un capace e pesante armadio di noce. Nella stanza di Davide, l'armadio a muro con le ante verniciate di marrone fungeva anche da biblioteca, rimasugli di scuola o remote letture della madre: Verga, Pirandello ed un dizionario della lingua italiana Zingarelli con la copertina strappata. Davide disdegnava quelle letture, anche se aveva sentito dire che nella vicina Valsesia, nei primi del Novecento c'era il figlio di un alsaziano direttore del reparto finissaggio della Manifattura Lane di Borgosesia, certo Curt Eric Suckert, il quale studiò per anni a Varallo Sesia che quotidianamente raggiungeva in treno. Più tardi, sotto il regime mussoliniano, diresse il quotidiano torinese "La Stampa". Con nome di Curzio Malaparte pubblicò numerosi libri: "Kaputt", "Tecnica del colpo di Stato", "La pelle", poesie e commedie. Malaparte, lo scrittore prediletto da James Dean, una delle star più amate del cinema, aveva trascorso parte della sua gioventù in Valsesia. E a Varallo, nelle pause della scuola, andava a pranzare alla Locanda del Levante, che esiste ancora. Quante pene d'amore sofferse Malaparte in Valsesia per Maria Bodoni, una giovane compagna di Quarona. "L'umile torrentello Riale" ebbe poi a scrivere "che scende dalle pendici del Chiossone sopra Varallo, nei pressi della Locanda, fu testimone d'un amore." Ma Davide era troppo irruento per lasciarsi trasportare da reminiscenze letterarie. "Oggi esploreremo la soffitta della Desolina", annunciò salendo la malferma scala che conduceva al sottotetto. "Ma la Desolina abita a cento metri da questo punto. Non potremmo fermarci prima?" Gli occhi di Davide baluginarono: "Ho detto la Desolina e quella dev'essere. Tanto più che da quindici giorni si trova all'ospedale, deve assistere il marito malato. Quindi, nessun problema. Possiamo agire tranquillamente, senza il timore di essere scoperti." "Per raggiungere quel solaio" considerò l'altro "dovremo passare dall'0deo: quello, se ci pesca, come minimo ci ammazza." "Caso vuole," replicò Davide "l'0deo è in officina fino a stasera." "E va bene. Mi hai convinto: sia per la Desolina." Raggiunsero la soffitta, un vano zeppo di sacchi contenenti stracci e ferraglia, un rottame di stufa a legna smaltata, alcune scatole di pianelle bianche. Salirono la scala a pioli; un piede di Davide, la guida, scivolò fermandosi sulla bocca dell'amico che lo seguiva goffamente. "E stai attento a dove metti i piedi" imprecò risentito, sputando ripetutamente. Raggiunsero il sottotetto e proseguirono oltre, strisciando come serpenti. Superarono la proprietà della Maria Luigia, dell'Oreste e dell'0deo, abbattendo le ragnatele che intessevano il tragitto. Sporchi di polvere, ma sempre cauti a non fare rumori che potessero insospettire i legittimi proprietari, raggiunsero, finalmente, dopo una buona mezz'ora, l'agognata meta. "Siamo arrivati" disse Davide raggiante. "Chissà cosa credi di trovare nella soffitta della Desolina, proprio non so" rispose l'altro. La Desolina, un'anziana contadina di oltre settant'anni, aveva risieduto in gioventù in Francia, dove conobbe Raphael che diventò suo marito. Da oltre un secolo la sua famiglia possedeva la casa di Riò, dove lei era arrivata nel dopoguerra; trasferendo, nel contempo, i ricordi degli avi: perlopiù oggetti d'altri tempi, uno ad uno eran finiti in soffitta creando un patrimonio di vecchiume. I due si calarono circospettiti sul ballatoio. Impossibile vederli, in quanto quella soffitta sovrastava le altre. Si concessero un momento di pausa sedendo sopra alcune casse. Sotto, nella corte, una dozzina di galline e qualche anatra gironzolavano alla perenne ricerca di cibo. Dal campanile della chiesa di Sant'Antonio pervenne, e risonò argentino, il colpo della mezz'ora di una campana. Dalla parte del fabbricato si scorgevano i colli pietrosi intersecati dai vigneti sui quali dondolavano, scossi dalla brezza, grappoli d'uva quasi pronta per la vicina vendemmia; ed i prati ancora verdi e vellutati; e gli alberi di melo, pero, ciliegio e noce. A guardar bene si vedeva anche un tratto della strada asfaltata che conduceva in brevi rettilinei e nervose curve a Duecastelli. Il caldo sole di quell'insolito meriggio intiepidiva i tetti di quelle case rurali. Sia Davide che Scalchi rimboccarono le maniche della camicia. Entrambi con i capelli arruffati, gl'indumenti sporchi di polvere e di ragnatele, parevano spazzacamini. Si alzarono; bastava un salto. Davide si portò sopra una grossa trave, sedette e lasciò scivolare il proprio corpo verso il basso, tenendosi fortemente aggrappato con le scarne mani. Mollò quindi la presa, facendo un volo di un paio di metri. L'amico lo imitò raggiungendo con un cupo tonfo il pavimento della soffitta. In un angolo del locale stavano quattro pesanti cassepanche di legno rinforzate con profili di ferro, borchie, ed abbellite con un rivestimento di cuoio. Vicino, una culla piena di stracci; nei pressi del ballatoio, una tavola colma di castagne rinsecchite dagli anni. "Dài, apriamo le cassepanche" disse Davide rivolgendosi all'amico che stava schiacciando un grosso ragno nero con la croce sotto la scarpa. Uno per parte, afferrarono le maniglie della prima cassa, la più grande, piuttosto leggera. La sollevarono deponendola in mezzo alla stanza. Non aveva il lucchetto; fu sufficiente sollevare due staffe arrugginite. La apersero lentamente, trattenendo il fiato. Scalchi tuffò le mani in una miriade di lettere ingiallite e qualche fotografia. "Apriamone un'altra" disse Davide evidentemente deluso. "Un momento, un momento," rispose Scalchi sottovoce "fammene leggere almeno una." "Sono scritte in francese, non ci si capisce niente" fece Davide. "Dài a me" rispose Scalchi estraendo rapidamente una lettera dalla rispettiva busta spiegazzata. "É semplice" disse. "Questo che scrive era un sottufficiale dell'esercito di Napoleone III. Si chiamava Jean Michael." "Ha sì?" disse Davide fingendosi interessato. "E poi?" aggiunse curioso, sporgendosi con lo sguardo sulla lettera. "E poi niente. Non vorrai mica passare il pomeriggio a leggere le cose scritte più di cent'anni fa? Guardiamo piuttosto nelle altre casse; e filiamo." Davide strappò alcuni francobolli dalle buste e se li infilò nella tasca posteriore dei pantaloni di fustagno. La seconda cassa conteneva abiti smessi, un paio di cappellini da donna ingentiliti da qualche svolazzo, qualche asciugamano ed una tovaglia ricamata a mano con i rispettivi tovaglioli. La terza cassa, in legno di noce, stava chiusa col lucchetto arrugginito. "Maledizione" sbottò Davide. "Il lucchetto non ci voleva. Questa è la cassa più pesante. Qui dentro c'è qualcosa di grosso." "Lasciamola per ultima" disse l'amico. "Aiutami piuttosto a spostare questa, che è pure greve." Afferrarono la quarta cassa aperta, come la prima e la seconda, ma massiccia, zavorrata, faticosissima da muovere, e la appoggiarono sopra la terza, rimasta intatta. Sollevarono il coperchio, e le cerniere anchilosate scricchiolarono sinistramente. Conteneva un paio di tenaglie, un martello, un pacco di chiodi da carpentiere arrugginiti, dei bicchieri di cristallo decorati e numerose catene da camino, quelle che d'uso servivano per appendervi il paiolo in rame per cuocere la polenta. Davide afferrò subito il martello, e stava già per scagliarsi contro la serratura della terza cassa quando Scalchi gli agguantò l'avambraccio fermandolo. "Vuoi che ci sentano quelli giù nel cortile?" bisbigliò digrignando i denti. Poi prese la tenaglia e incastrò la ganascia tra il lucchetto e l'anello metallico fissato alla cassa. Davide lo aiutò a far leva con tutta la forza che aveva in corpo. Infine il lucchetto cedette improvvisamente ed i due ragazzi perdettero l'equilibrio cascando all'indietro, su lerci sacchi. Ma, evidentemente, quel che più importava era l'aver aperto la fatidica terza cassa. L'aver compiuto un'ennesima trasgressione li rese maggiormente complici. Si rialzarono come molle e si misero in ginocchio sollevando, uno per lato, il consistente coperchio. Anche questa volta le cerniere arrugginite cigolarono. Davide tolse una vecchia coperta, e sotto uno spesso strato di segatura riaffiorò l'impugnatura di una splendida sciabola, fornita ancora del fodero in cuoio terminante con una guarnitura in ottone opaco. "E' bellissima" sussurrò. L'altro annaspò brevemente nella segatura e carezzò una strana sagoma. L'afferrò con entrambe le mani: si trattava di un fucile ad avancarica, certamente appartenuto, come d'altra parte la sciabola, a quel Jean Michael sottufficiale delle lettere. "Splendido" disse Scalchi levandosi in piedi e puntando l'arma in aria quasi per verificarne l'efficace funzionamento. Il fucile aveva una lunghissima canna brunita, gli anelli con l'asta di caricamento inserita, decorazioni floreali sul cane e sulle altre guarniture in ottone. Il grilletto terminava con una piccola spirale. "Presto, andiamocene" disse il ragazzo all'amico che aveva sguainato l'arma intarsiata. Davide reinserì rapidamente la lama nel fodero e l'appese a un chiodo che sporgeva dalla parete. "No, oltre al danno anche le beffe. No, prima di andarcene rimettiamo almeno in ordine le casse." Una per una rimisero le casse al loro posto; con la variante che la terza cassa col lucchetto forzato finì dietro le altre, rendendo mascherato l'antefatto. Presero quindi le armi, pronti per tornare col lauto bottino alla soffitta di partenza; ma c'era il problema della risalita. Per raggiungere il sottotetto, dal quale eran faticosamente pervenuti, dovevano superare un dislivello di quel paio di metri che all'arrivo non costituiva una barriera essendo stato sufficiente, un salto verso il basso. E non potevano nemmeno scendere più semplicemente lungo la nodosa scala a pioli che conduceva, esternamente, al ballatoio in quanto rischiavano di essere irrimediabilmente scoperti. In quel momento, poi, pervenne un confuso vocio che, gradualmente, divenne sempre più intelleggibile. "E' arrivata la Desolina" disse con gli occhi sgranati Scalchi. "Pare anche a me" rispose Davide confuso. "Non spaventiamoci" aggiunse. "Intanto non viene sicuramente sopra. Presto, cerchiamo una soluzione per scalare il muro e badiamo a non far rumore. "Sta chiacchierando con il Brusa" riferì ancora all'altro che, nel contempo, saliva sopra una stufa a legna allungandosi in punta di piedi per aggrapparsi alla trave. Davide s'avvinghiò ai polpacci penzolanti del compagno e gli diede una spinta verso l'alto; e quest'ultimo, come una docile scimmietta ammaestrata, raggiunse il sottotetto, mentre quello da basso legava con una sottile ma robusta funicella, che s'era portato dietro per ogni evenienza, le due armi trafugate. Passò la fune all'altro, che tirò in salvo il bottino e poi, reggendosi a una trave malferma, gli tese la mano, bagnata dal sudore dell'emozione. Davide s'arrampicò poggiando un piede sulla parete e premendo per darsi maggiore slancio col sinistro sulla stufa a legna, che dapprima barcollò e infine ruzzolò con un fragore di ferraglie decisamente forte, tanto da esser percepito da quanti stavano sfaccendando, ignari di quanto avveniva sopra, sulla soffitta, nel cortile. "Cosa capita là sopra" sbraitò il Brusa dal cortile mettendosi le mani ai fianchi e scrutando in alto, verso la famigerata soffitta. "Saranno i gatti, ce ne sono talmente tanti" rispose la Desolina mestamente, guidando con un ramo galline e anatre nel pollaio. "Che gatti e gatti" rispose il Brusa con rabbia. "Ci scommetto mezzo litro di nero che l'è quel lazzarone del figlio del Parracini che fa razzie nelle nostre soffitte. Se avessi qualche anno di meno salirei per dargli la bella lezione che si merita. Ma glielo dico io a suo padre; glielo dico io quando torna dalla fonderia." "Sono ragazzi, bisogna capirli" disse la Desolina "lasciamoli fare", e si rassestò l'ampio scialle sulle spalle. La Desolina appariva molto provata; il marito era deceduto proprio quella mattina dopo un lungo ricovero ospedaliero. La donna in gioventù aveva risieduto per svariati anni in un paese dove svolgeva il duro lavoro di mondina nelle sconfinate risaie della bassa. Il Brusa era il boscaiolo più conosciuto della zona. (G.P.)



-- Giuseppe Patellaro (patellarofulcrum@netscape.net), September 20, 2002.


Moderation questions? read the FAQ